IL MARESCIALLO

 

 

Il Maresciallo avanza con un metro estensibile in mano, si avvicina sul piazzale del 5° Btg El Alamein a Siena, si ferma ad un passo, con fare schietto e beffardo misura la mia altezza e la larghezza, così domando: "ma che stai a fa?" il Maresciallo risponde: "niente, domani stai al lancio… prendo le misure, nun se sa mai….. eh eh". Ghignando s'allontana. Al tempo ero superstizioso, non esito a fare un gesto scaramantico molto comune fra i maschi.

La sera, complice la stanchezza, in mutande, seduto sul letto, piedi scalzi, rifletto sul lancio dell'indomani, se tutto fosse filato liscio come al solito, la sera successiva sarei stato ancora lì, oppure forse quella era la mia ultima sera sulla terra.

La sveglia al mattino alle 4, colazione in mensa truppa, caffellatte, cioccolata calda, tè o succo di frutta a scelta, gallette, cioccolata, pane burro e marmellata, tutto a volontà. Poi sul piazzale tutti i fucili e le mitragliatrici MG vengono allineate su più file, si fa il controllo dei fogli d'imbarco, quindi quando tutto è in ordine e controllato si sale sui camion, i CM52, su ogni camion i due seduti più esterni, verso il portello reclinabile di accesso, hanno il caricatore con proiettili calibro 7,62, il caricatore ha un nastro rosso per distinguerlo da quelli a salve o vuoti, l’accorgimento è necessario per un'eventuale difesa in caso di attentato delle Brigate Rosse per rapinarci delle armi. Anche gli ufficiali ed i sottufficiali nelle cabine del camion sono armati. Il tragitto fino a Pisa per l'imbarco è lunghissimo con i camion che procedono a 50 km l'ora in colonna, i fari sono accesi e fa molto freddo. 

Una volta in una località della Toscana andando verso l’aeroporto, a metà strada, alcuni ragazzi ci "batterono la stecca" ed insultarono i Parà che andavano al lancio. Fermai il camion e con me scesero 5 o 6 Parà, lo sguardo terrorizzato dei ragazzi trasformò la rabbia da parte nostra in un goliardico: "non ci rompete …. e  fatevi gli affari vostri, che non andiamo a divertirci!" 

In aeroporto i militari si dispongono su due file ai margini della pista, attendendo l'imbarco dell'Hercules C130, i paracadute sono imbracati, lo zainetto è fissato davanti, sotto il paracadute d’emergenza, agganciato di lato con un moschettone c’è  il fucile FAL con il calcio reclinabile, ed un tappo di spumante di plastica sulla canna per impedire l'accesso della terra del prato durante l’impatto all'atterraggio. Chi non ce l' ha o non lo mette, oltre alla punizione paga da bere. Lo zainetto in basso ha un cinturino che assicura il fucile per mantenerlo parallelo alla coscia. Rialzarsi in quelle condizioni non è facile, quando le condizioni meteo non sono perfette, specialmente per il vento, si può restare seduti per ore in attesa dell’ordine d’imbarco.

L'imbarco nel grande aereo da trasporto avviene in modo ordinato, silenzioso, in senso inverso all’uscita ogni parà deve controllare quello che gli sta davanti per verificare che tutto sia in ordine con la fune di vincolo. L'aereo è pressurizzato, dopo il decollo fa un'ampia virata verso la zona di lancio, 72 parà, ogni passaggio 12 fuori, il primo di ogni passaggio è un ufficiale, un sottufficiale, o anziano. L'aereo si stabilizza, si aprono le porte laterali, mi metto in posizione, le dita fuori della carlinga, il palmo steso e compatto, per evitare d'incastrare un dito al momento del lancio, a causa della velocità l'aria sembra solida come un muro di cristallo. L'uscita dalle porte laterali, sebbene ci sia un alettone frangivento, rende molto più forte la sensazione della velocità in uscita.

Quando sono fermo sul portellone aperto ed osservo il paesaggio terrestre simile ad un plastico, provo una sensazione particolare, che si riproduce sempre in quel momento, le narici sono aperte, nessun raffreddore potrebbe fermare il passaggio dell’aria, la parte di cervello che si occupa della paura o del panico è sommersa da quella che controlla le emozioni legate alla forza, non mi perderei quel salto nel vuoto per tutto l’oro del mondo, sono solo, affacciato sul mondo, ma faccio parte di una squadra con la quale ho un legame che va oltre l’amicizia, oltre la parentela, oltre il legame di sangue, sono come miei gemelli, l’aereo è come un’enorme placenta che avvolge i suoi figli, pronti a nascere spingendosi fuori nel vuoto. Osservo affascinato il terreno che scivola sotto i piedi, il portellone sul quale mi trovo oscilla da sinistra a destra e viceversa scivolando in basso per poi risalire come un potente ascensore, cerco dei punti di riferimento per capire quando arriverò sulla zona di lancio, un casolare, un bivio stradale, rifletto estasiato sull’esperienza che sto sperimentando, ho tutto il tempo di capire fino in fondo cosa sto facendo, come un bambino davanti ad un dono tanto atteso, mi gusto quegli attimi che so essere irripetibili, non condivisibili fino in fondo, ma che possono essere solo vissuti e sperimentati personalmente, custoditi con cautela , perché è poca la gente disposta a capirli.

Quando  cammini in un campo, con il sole alto ed hai tempo per riflettere e dici a te stesso: “ sono un Paracadutista!” senti che il cuore ti si riempie di forza, l’unica volta che ho provato la stessa sensazione è stato quando ho capito cosa volesse dire per me essere Cristiano

Essere Paracadutista è una cosa intima, profonda, che più non possono capire perché troppo distratti, implica sacrificio, fatica, lavoro, impegno, dedizione, subordinazione, obbedienza, tutti aspetti che formano il carattere, che insegnano ad esistere, ma che la maggior parte degli esseri umani cerca di schivare. Nei parà la falsità è poco diffusa, più per motivi tecnici che per qualità umane, poiché trovandosi sempre in azione in operazioni fortemente dinamiche si ha tempo per comunicare pochissime informazioni, che lasciano poco spazio a messaggi falsi o superficiali, questo si ripercuote anche nei rapporti interpersonali.  

Un salto ……. e via nel vuoto, trattengo il fiato per qualche secondo verso quella sensazione che rende il parà diverso dagli altri esseri umani, in questo modo appagavo il mio bisogno di eccezionalità, anche se non c'era pubblico, anche se raccontarlo non aggiunge niente di più, la scarica di adrenalina è tale che l'appagamento, una volta arrivato a terra, è totale, pienamente soddisfacente. Pensando ai miei colleghi lanciati durante la seconda guerra mondiale, o quelli in azione in Vietnam, comunque in zone di guerra, sapere che sotto non c’è nessuno che ti aspetta per fare il tiro al piccione è sicuramente tranquillizzante. Una volta fuori dal portellone il silenzio ti avvolge completamente, in fondo per un minuto e mezzo scarso sei appeso a mille piedi da terra come un salame, bardato fino ai denti, rassicurato dal fatto che il paracadute sia aperto osservi affascinato il paesaggio del creato, scambi qualche urlo con chi ti segue o precede in aria, se ci riesci scatti qualche foto, quindi ti prepari all’impatto col terreno, che si avvicina velocemente e non è mai tenero, i muscoli delle gambe sono tese, le braccia distese aggrappate alle corde pronte a tirare in basso la calotta immediatamente prima dell’impatto.

L'ambiente del Battaglione operativo non era affatto come le persone di fuori lo dipingevano, gli episodi di violenza, specialmente quella gratuita, erano ridotti al minimo, è anche vero che quando succedevano e venivano scoperti, la punizione era sicura e la pena certa, i ragazzi erano tutti dei bravi ragazzi, molti già lavoravano prima di essere arruolati, normalmente con la famiglia, chi faceva il meccanico, chi l’operaio, come sempre, quando c'è una gran quantità di persone, ci poteva essere qualcuno che usciva dai ranghi ed era rissoso, o sfogava la sua frustrazione attraverso l'anzianità o il grado, ma veniva messo subito in riga, qualcuno che voleva approfittarsene per andare in licenza poteva esagerare con il numero di parenti morti o all'ospedale, alla prima passava, ma alla seconda perdeva pure i diritti acquisiti fino a quel momento. L'ambiente era serio e professionale, senza estremismi, senza modi di fare inutilmente prevaricanti fra commilitoni. C'era un lavoro da sbrigare e bisognava svolgerlo seguendo delle regole, in tempi precisi, come il soccorso in caso di calamità naturali, servizio d'ordine, le esercitazioni interforze. Sicuramente c'era una forte competizione fra gli stessi ufficiali e fra i parà, ma ogni cosa avveniva seguendo le regole.

Il Tenente d'Accademia Foti, leggermente superstizioso, non apprezzò il macabro scherzo che gli facemmo, quando, la sera prima del lancio, la sua stanza fu trasformata in camera mortuaria con le candele ai bordi del letto, un drappo nero come lenzuolo ed il modellino di un Hercules C130 rovesciato nel mezzo del letto. Io con i "due Giorgi" miei compagni di stanza e l’allora tenente Antonio Satta, ideatori della farsa, fummo "cazziati" ma non puniti.

Scherzare sulla morte ne esorcizzava la paura, condividendo le sensazioni dopo il funerale di alcuni colleghi morti al lancio con i compagni di stanza, constatavo che dopo un grave incidente o la morte al lancio di un collega, scattava come un meccanismo di demenziale euforia, che ci faceva sentire in colpa, da un lato perché noi eravamo sopravvissuti e dall’altro perché eravamo felici di essere vivi, quasi che questo comportasse una nostra responsabilità ed uno sfregio nei confronti di chi era caduto al lancio ed al tempo stesso c'era una profonda amarezza e tristezza quando un ragazzo, un ventenne, un compagno d’avventura, moriva al lancio.

In quel frangente tutto si ferma, avviando una profonda riflessione sulla vita e sulla morte. Se quel pacco fosse toccato a me? Se la sua anomalia fosse capitata a me? Se il suo possibile errore l’avessi commesso io? Oggi non sarei qui a riflettere, di colpo tutto ciò per cui pensavo valesse la pena lottare si sarebbe dissolto come nebbia al sole. Tutte le cose che la mentalità umana reputa indispensabili, di colpo tornerebbero ad avere il loro valore reale. L’essenza vera ed unica del nostro soggiorno sulla terra, non è quella propinata dalla società attuale, governata da strutture che tritano la personalità umana, che hanno una parvenza d’eternità, per alcuni addirittura un surrogato della divinità, che rasentano l’idolatria. Siamo schiacciati da strutture, lobby di potere, che sopravvivono agli uomini che le hanno create e contribuiscono a farle crescere, come le grandi multinazionali, grandi istituzioni finanziarie, e tutto ciò che ambisce a detenere il monopolio dell’informazione.

Le strutture monopolizzatrici che determinano la globalizzazione,  sono regolate da sistemi che hanno spersonalizzato la gestione, svuotando la società dalla componente umana. Queste servono da piedistallo per l’affermazione personale su fondamenti futili per pochi uomini che hanno sacrificato ogni cosa, spesso la dignità stessa, per raggiungerne il vertice, per poi essere, alla fine, scaricati come rifiuto tossico di alto livello, durante la loro esistenza vissuta nella vanità del superfluo hanno fatto molto male al prossimo.

Aver strofinato il proprio muso contro il terreno, essersi impregnato di pioggia d’inverno, ed aver camminato ore nei boschi completamente zuppo assieme ai commilitoni, aver riflettuto profondamente sulla vita e sulla morte, scampandola, trovando gratificante semplicemente di potersi sedere per scaldare la scatoletta della razione K.

Tutto questo genera uno stridente contrasto con la società degli “interni in pelle”, del “menù disgustoso” nel villaggio turistico, del disappunto per il “posto barca scomodo”.

La società occidentale sembra rimbecillita, estranea ai miliardi di persone che muoiono di fame, sfruttate, vessate, l’olocausto per molti sembra essere stato un mero incidente di percorso, mentre invece è stata l’insensibilità simile a quella attuale a generarlo. La sete di potere e l’amore per il denaro l’hanno reso possibile, la prospettiva d’impossessarsi di grandi quantità di beni altrui velocemente, senza troppo lavoro, ha giustificato e motivato l’episodio più infame della storia.

L’egoismo diffuso promuove l’arrivismo che va a braccetto con la codardia, che non è paura, ma è fuga dalle responsabilità, terrore del sentimento della paura.

Alcuni testi del libro